Egli era però un homo
novus (uomo nuovo, cioè non appartenente ad una famiglia che potesse
vantare fra i propri avi almeno un senatore); questo condizionò, almeno in
principio, le sue scelte.
Cicerone esordì nel foro con l’orazione Pro Quinctio (= in difesa di
Quinzio ), nell’81 a.C.: da questo momento in poi l’attività di avvocato e
oratore e la carriera politica furono strettamente connesse. Spesso infatti,
Cicerone adattò le sue scelte di avvocato alle opportunità politiche: così,
per esempio, dopo essere stato questore in Sicilia nel 75, sostenne nel 70 le
accuse contro l’ex governatore della provincia, Verre, e ottenne la sua
condanna, ma l’anno dopo difese da accuse analoghe Fonteio, ex governatore
della Gallia Narbonese. Si guadagnò per questo il disprezzo di Catullo (carme 49:
clicca qui per leggerlo), che ironicamente lo definisce "optimus omnium
patronus" (= "il migliore avvocato... di tutti!").
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LA CARRIERA POLITICA La fama raggiunta in campo giuridico
e la capacità di sostenere la causa di cavalieri benestanti
senza inimicarsi i senatori gli aprirono la strada verso le carriere politiche
più alte, fino al consolato del 63 a.C., durante il quale stroncò la congiura
di Catilina, pronunciando le celebri orazioni politiche Catilinarie.
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La concordia dei
benpensanti realizzata negli anni del consolato, durò poco, per l’intransigenza
dell’ala reazionaria del senato, per la mentalità affaristica dei cavalieri,
per l’inclinazione dei potenti come Pompeo a favorire le richieste demagogiche
dei populares. Nel 60 fu offerto a Cicerone di entrare a far parte del
primo triumvirato, ma egli non aderì, per scrupoli legalitari e per timore di
apparire come un traditore agli occhi dei conservatori. Così rimase tagliato
fuori dal gioco politico, e fu la prima vittima delle vendette dei democratici,
il cui esponente più oltranzista era in quegli anni il tribuno della plebe
Publio Clodio Pulcro, nemico giurato di Cicerone, che fece votare contro di lui
una legge, in base alla quale chiunque avesse mandato a morte dei cittadini
romani senza appello al popolo sarebbe stato esiliato. Era precisamente il caso
di Cicerone, che aveva fatto giustiziare i catilinari con un processo sommario.
Esiliato nel 58, rientrò a Roma l’anno dopo, ma ormai destinato ad un ruolo
secondario. Con alterne vicende intervenne nella politica, per lo più
appoggiando la linea di Pompeo, dalla cui parte si schierò, seppur dopo molte
esitazioni, in occasione della guerra civile contro Cesare (49 – 45 a.C.).
Tornato a Roma dopo la vittoria del
suo avversario, Cicerone ne ottenne il perdono, ma con il divieto di occuparsi
di politica attiva. Morto Cesare nel 44, Cicerone credette di poter tornare ad
occupare un posto di primo piano nella vita politica Romana: non si accorse
però di essere nelle mani dell’appena diciannovenne ma abilissimo Ottaviano,
in cui egli riponeva una incauta fiducia. Cicerone con le sue orazioni Filippiche
attaccò Antonio, ma questi si accordò con Ottaviano e Lepido, concludendo
il secondo triumvirato. L’oratore venne quindi lasciato in balia del suo
nemico, che lo fece assassinare il 7 dicembre del 43 a.C.
Plutarco ci racconta che Antonio
fece tagliare all'oratore la testa, le mani e la lingua (ree di avere
rispettivamente pensato, scritto e pronunciato le Filippiche), tenendo la
testa sul proprio tavolo a mo' di fermacarte, finché il fetore della
decomposizione non gli divenne insopportabile.
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